Una storia di speranza e solidarietà:
quando ricominciare è possibile

Dal telefono che squilla alle 4 del mattino non ci aspettiamo di certo la voce di un caro amico che ci chieda: “Come stai?”. Anche perché la gamma delle risposte potrebbe essere davvero variegata e non è questa la sede per raccontare come finiscono le amicizie.

Quel trillo nel cuore della notte, nella maggior parte dei casi, è portatore di infauste notizie, e non fa eccezione quanto accade a Elena, voce narrante del romanzo Le zie di San Godenzo edito da Sarnus, marchio del gruppo fiorentino Polistampa.

Il punto è che la notizia della morte di zio Attilio non turba poi così tanto Elena. E non per cinismo, ma perché costui, così come la zia Ottavia, messaggera dello sciagurato accaduto, sono entrambi posizionati «su rami abbastanza distanti» da quello della sua famiglia.
Una distanza che però non aveva impedito a zio Attilio di nominare Elena e altri nipoti come eredi di una casa a San Godenzo.

… allora, non è poi così vero che una telefonata decisamente fuori orario porti male?
Non proprio. Perché quell’eredità nasconde una “fregatura”: la casa di zio Attilio risulta abitata da due anziane, perciò Elena e gli altri eredi non avrebbero potuto né utilizzarla – per evitare di sfrattare le due donne, data l’età–, né venderla – perché sarebbe significato abbatterne il prezzo, trattandosi di una casa occupata.
A Elena non resta che andare personalmente a verificare la situazione.

È a partire da questo momento che Silvia Barchielli entra nel vivo della narrazione del suo romanzo. Specializzata in Pedagogia relazionale, l’autrice tesse una storia toccante che va drammaticamente a scomodare l’universo delle squilibrate relazioni familiari, percorrendo, in maniera trasversale, le vicende di più generazioni.

L’azione prende avvio dall’incontro tra Elena e le due attempate signore: un quadretto esilarante in cui l’erede è totalmente in balia di Ersilia e Leonia Tocci, le due inquiline dell’appartamento, a cui si aggiunge in un secondo momento la cugina Armida. Un trio di vecchiette davvero bizzarro grazie al quale il lettore assiste a un siparietto spassoso, comico: un quadro che lo immerge in quella realtà provinciale accattivandosene la simpatia.
Elena ne esce intontita, “salvata” dal maresciallo del paese – usuale visitatore di quella casa, una sorta di nipote per quelle donne – che la invita a trattenersi fino al giorno seguente, facendole intendere di avere qualcosa da dirle…

L’incontro, apparentemente fortuito, con il maresciallo e con le altre tre “autorità” del paese – la farmacista, il parroco e il sindaco – era stato architettato proprio per informare Elena della complessa e dolorosa situazione che si nascondeva dietro la vicenda delle zie di San Godenzo e della loro famiglia.
In quell’occasione Elena comprende che le sorelle Tocci avevano alle spalle un vissuto piuttosto “impegnativo”, fatto di sacrifici e sofferenze che mai, però, avevano impedito loro di essere generose e disponibili verso gli altri, tanto da diventare due vere e proprie istituzioni nel paese. Non solo. A Elena viene consegnata una risma di fogli attraverso cui apprende la vicenda di Giacomo.

Per il lettore si apre in questo momento un nuovo scenario narrativo, in cui ad accompagnarlo è anche la voce narrante di Giacomo.
Nipote delle due anziane, è cresciuto in una struttura psichiatrica, dov’è stato rinchiuso in tenera età, a seguito della morte della sua mamma. Una vita interrotta, la sua, dal profondo dolore per una perdita così irrimediabile e incomprensibile per un bambino e, soprattutto, dall’incapacità di capire, dall’ignoranza, dall’aridità e dall’anaffettività di chi gli era rimasto: un padre troppo concentrato su se stesso, due nonni completamente assorbiti dalla mentalità provinciale e preoccupati solo di che cosa avrebbe potuto dire la gente.
«“La gente” pensò Giacomo. Che c’entrava la gente? Cosa importava alla gente quello che faceva lui? E che diritto aveva la gente di pensare ai fatti suoi? E dov’era la gente mentre lui si sforzava di non piangere e di non pensare alla sua mamma? Dov’era la gente in quella nottata appena trascorsa in cui aveva dovuto far finta di baciare sua madre per riuscire ad addormentarsi? E poi, chi era la gente?».
Già… chi è “la gente”? È un interrogativo a cui Giacomo non riuscirà a trovare risposta in quell’angolo di mondo dimenticato nel quale trascorrerà quasi completamente la sua esistenza, circondato da altri respinti dagli affetti e della società, come lui, colpevoli del solo fatto di non riuscire a farsi capire dagli altri, di parlare un linguaggio diverso.
Quel pozzo di individui abbandonati a se stessi e al destino si presenta agli occhi di chi legge nell’analisi, semplice, lineare e ingenua che ne propone lo stesso Giacomo. Ne deriva il ritratto di una fetta di umanità problematica, sì, ma autentica, nel quale la condivisione della sofferenza, basata sull’ascolto e sui silenzi, segna il trascorrere lento e inesorabile di un tempo che non verrà mai restituito. E che, però, non è perduto.

Proprio grazie alla compassione altrui, quella che tanto gli era mancata quando ne avrebbe avuto maggiormente bisogno, per Giacomo si aprono nuove possibilità, l’opportunità di ricominciare dall’esatto punto in cui aveva cercato di ripartire, da bambino, con quel tentativo di fuga finito male, finito in un ospedale psichiatrico: le zie Tocci.
Il futuro di Giacomo, molto più breve ormai del suo passato, dipenderà da Elena e dalla sua capacità di comprendere quanto importante possa essere la sua inaspettata eredità per donare una possibilità di riscatto a una vita andata in frantumi troppo precocemente.

Le zie di San Godenzo è una storia di speranza, di promesse non illusorie, di tolleranza, di liberazione.
Peccato che sia solo un romanzo. Perché di vicende così ne avremmo davvero bisogno.

Autore: Silvia BarchielliBrachielli_Sarnus
Titolo: Le zie di San Godenzo
Editore: Sarnus; www.sarnus.it

Anno di pubblicazione: 2015
Numero pagine: 156
Formato: 12x21cm
Prezzo: 10,00 €

 

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