Vita, morte e bugie. L’importante è che la morte ci trovi vivi di Dario Bellini Tamburro

Vita, morte e bugie. L’importante è che la morte ci trovi vivi di Dario Bellini Tamburro

Per chi si diverte con carta e penna, la pagina bianca può essere una grande occasione. Quella di raccontare delle enormi bugie. Tante, e tutte insieme. E senza doversi preoccupare che questo risulti rilevante o meno agli occhi di chi legge. Che importa, in fondo, al lettore? Non si tirerà indietro dall’“ascoltare” una storia solo perché è una bugia. Del resto, l’essenza stessa della letteratura non è proprio quella menzognera?

Se questo è vero, ne deriva che edillia si è imbattuta in una specie di Pinocchio incallito che vede la vita come un «grande e continuo inganno» e si è divertito a presentarla come tale nelle pagine di L’importante è che la morte ci trovi vivi, uscito per Intrecci edizioni con la (prestigiosa) Prefazione di Gianni Moak.

Il Pinocchio di cui sopra è Dario Bellini Tamburro. Romano, 23 anni.
E se la giovanissima età consente di comprendere, e di giustificare, l’attitudine alla finzione, alla creatività, al modo scanzonato di usare le parole sulla pagina, un po’ meno spiega l’inclinazione a riflettere sulla morte.
Chi, a 23 anni, “gioca” a fare l’ottantenne spacciato?
Dario lo ha fatto con un tono dissacrante; alla sua età si è messo a riflettere sul valore della vita passando attraverso l’idea di una morte vicina e concreta da affrontare con ironia e sarcasmo. Spesso anche con un certo cinismo. Tutte “doti” di Domenico Morganti, il protagonista del romanzo che prende in prestito il titolo dalla celebre battuta di Marcello Marchesi.

Morganti è, in tre parole, un vecchio viziato e spregevole. Abituato a comprare tutto, tanto da potersi permettere persino l’hobby di collezionare immobili, è un uomo che ha fatto fortuna con la sua attività imprenditoriale, ma che ha fallito sotto molti altri aspetti. E se ne rende conto – ma nemmeno poi tanto – solo quando scopre che gli resta da vivere ben poco perché a quasi 80 anni la malattia non lo risparmia.
Lui, però, è abituato a dire l’ultima parola e si scopre incapace di accettare la sua inevitabile fine; meglio, ne è tremendamente spaventato al punto da infilarsi in situazioni assurde e completamente fuori dalla realtà.

Incontra il papa, ma l’“imponenza” del suo ruolo non lo scalfisce; prova a suicidarsi in un modo piuttosto improbabile; inizia uno scambio epistolare con un individuo decisamente sinistro e intraprende un viaggio impossibile alla ricerca dell’immortalità. Come se non fosse giù abbastanza illogico, al suo ritorno pensa di mettere la sua coscienza – se si può dire che ne abbia mai avuta una – nelle mani di una specie di paladina del perdono e della riconciliazione, una sorta di Maria de Filippi.
Per arrivare alla conclusione già chiara sin dal principio: ciò che lo circonda è il vuoto.

Non c’è nulla di formativo in questa mirabolante parabola fatta di situazioni completamente surreali e grottesche.
Domenico è sin da subito un antipatico, un fallito, e tale rimarrà nell’epilogo. Anzi, lì lo si trova addirittura peggiorato, nel corpo e nello spirito. Ma alla sua involuzione ci si affeziona.
Perché si prende coscienza dell’incompiutezza che accomuna gli uomini.
Perché si riflette sul ruolo che gioca la responsabilità individuale nel fluire quotidiano.
Perché non si può leggere sempre tutto in chiave psicoanalitica e “scomodare” Freud per trovare le giustificazioni delle scelte come delle non scelte dell’esistenza propria e altrui.

A questo contribuisce il taglio non drammatico del romanzo che, al contrario, si muove nel territorio della parodia, e lo è anche di se stesso quando sfocia nella metafiction e rivela un protagonista consapevole di essere “personaggio”.
A L’importante è che la morte ci trovi viviben vedere, non si può nemmeno definire un romanzo “puro”, dal momento che racchiude il suo intero significato in un componimento in versi caratterizzato da termini inizianti tutti per V, come vita; si concede, inoltre, delle pause poetiche di (pseudo) dantesca memoria e fa l’occhiolino alla prosa tipica delle parabole bibliche quando c’è da richiamare qualche evento del passato di Morganti: dei flashback particolari, in sostanza, sempre molto ironici, che rendono poco lineare, imprevedibile e non “ingessato” lo schema narrativo seguito, peraltro costantemente condito dai pensieri-commenti contraddittori e umoristici di Domenico.

Chiudendo il romanzo, si ha la percezione di un forte non senso.
Si può decidere di ricominciarlo daccapo, perché tra piani di sequenza, stacchi di inquadrature e scene nelle quali il lettore si trova a sguazzare, si insinuano non pochi dubbi: le vicende sono reali o si svolgono nella fantasia di Domenico? Mohammed, il suo compagno di viaggio, è un “grillo parlante” fittizio o è una persona in carne e ossa? Niccolò è esistito davvero o ha solo funzione di alter ego? E Adam Foley? Chi è davvero Adam Foley?
Oppure lo si può congedare, certi di aver dato semplicemente corda ai meri deliri di un “uomo distrutto”. Piacevolmente o meno, lo stabilirà il lettore.

Perché all’autore, in fondo, interessa soprattutto che «qualsiasi cosa si faccia, che sia un successo o un terribile fallimento, l’importante è che, anche se per un solo attimo, 200 pagine o una vita intera, quella cosa ci faccia sentire vivi».

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