Cogliere la meraviglia e il fiore… petaloso

Cogliere la meraviglia e il fiore… petaloso

Più o meno un mese fa, sui social e su diversi portali italiani ha fatto il giro una storia carinissima, quella dell’invenzione di un neologismo: Matteo, 8 anni, ha usato una parola “nuova” in un compito, ma prima di vedersela segnata in rosso ha interpellato, guidato dalla sua maestra e aiutato dall’intera classe, l’Accademia della Crusca che non lo ha “bocciato”.

Petaloso
Non è necessario ripercorrere l’intera vicenda perché è stata virale e tutti sicuramente la conoscono; peraltro è sufficiente digitare “petaloso” su un qualsiasi motore di ricerca per rinfrescare la memoria e per rendersi conto di quante persone si siano sentite coinvolte e in diritto di diffondere il nuovo… verbo.
Su Google, a oggi, la ricerca dell’hashtag “#petaloso” restituisce 157.000 risultati, mentre l’occorrenza in sé 330.000 (i dati si sono triplicati in un mese).
Sebbene “sboccino” a primavera iniziata, queste righe, come dire, non stanno sulla notizia, e in fondo non nascono nemmeno con questo scopo.

Nascono piuttosto dalla riflessione sul fatto che chi, per mestiere o per piacere o per necessità – quindi tutti –, ha a che fare con le parole e con la lingua deve considerare vivo il (bel) rischio di trovarsi a mettere in discussione le regole o di doverne assorbire di nuove.
Come ha fatto la maestra di Matteo non limitandosi a sfoderare la matita rossa su un termine ufficialmente inesistente, ma fornendo al fantasioso studente gli strumenti per disporre della spiegazione “scientifica” del suo errore o presunto tale. E probabilmente Matteo e i suoi compagni hanno così imparato di più e meglio. Ma non è la strategia didattica il punto.

Il punto è che il modo in cui diamo forma ai nostri pensieri è una responsabilità tutta nostra, individuale, ed è l’elemento che ci dona la libertà. Persino quella di sbagliare.

La vicenda di Matteo ha impazzato sul web per più ragioni:

  • perché il protagonista è un bambino – e i bambini, per natura, inventano neologismi ogni giorno – di cui gli adulti hanno saputo cogliere la meraviglia;
  • perché c’è stata l’eco di un ente prestigioso che ha fornito una risposta chiara e scientifica, ma a misura di un interlocutore di quell’età;
  • perché ha messo tutti di fronte a un fatto oggettivo che spesso viene dimenticato: e cioè che «la possibilità di sbagliare è […] il principale indicatore della vitalità di un idioma» (Andrea De Benedetti, La situazione è grammatica. Perché facciamo errori. Perché è normale farli, Einaudi, p. 4).
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Immagine tratta dalla pagina Facebook dell’Accademia della Crusca

La Crusca, infatti, non ha vagliato il termine “petaloso”, ma ha spiegato che esso risponde effettivamente alle regole che sono alla base della formazione delle parole a esso simili e che saranno i parlanti a stabilirne l’ingresso nei dizionari mediante l’uso.

I dizionari, quindi, sono – paradossalmente, poiché lo fanno al tempo stesso in cui codificano – la testimonianza che non siamo macchine perché parlando, semplicemente parlando (o scrivendo, o leggendo), diamo forma a una realtà che non è cristallizzata, bensì liquida, e proprio per questo vera.

Codificare non è certo un’azione imposta dall’alto da dei matusalemme che non ci lasciano via d’uscita, e questo è ciò che Matteo ha sperimentato su di sé e a beneficio di tutti coloro che hanno seguito la sua vicenda. Tuttavia è una strada per garantirci la possibilità di condivisione e di “movimento” lungo lo stesso orizzonte.

Ben venga, però, ogni guizzo della libertà linguistica che abbiamo, in ogni caso, il diritto di esercitare. Possibilmente senza farci sfuggire troppo di mano la situazione… anche perché, in quella vicenda, il confine tra lo scherzo e la polemica (sterile, per certi aspetti) è diventato via via molto sottile, perdendo i contorni della semplice “dolcezza” che la caratterizzava e il suo più profondo significato. Che non era incaricarsi della missione di iniziare a usare il termine “petaloso” da quel momento in avanti (a colpi di like e di hashtag?), ma di prendere coscienza – e con il sorriso che la candida innocenza richiede – della libertà e della potenza evolutiva entro cui si muovono le parole. Di “ricordare” che la lingua è una cosa seria.
E non seriosa.

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